giovedì 2 maggio 2013

Edificio 17A - Cose che ricordo del passato 14




I falsi amici.
Ebbi presto le chiavi di casa, fra i quindici e i sedici anni. Era un segnale che avevano fiducia nella mia capacità di gestirle. Ma la vera conquista era poter uscire la sera. Mi bloccavano i “Dove vai? Con chi? Che fate? A che ora torni?”. Le classiche domande dei genitori. Pur di uscire mi inventai degli amici falsi. Cioè, erano persone reali, ma appena conoscenti, promosse ad amici di serate passate al bowling. Bowling... dov'ero stato una volta sola, peraltro di giorno.
Esco, vado con dei compagni di scuola a giocare al Bowling. Non farò tardi.”
Ma lo dicevo dal buio del corridoio, per nascondere il rossore che mi avvampava sul viso quando dicevo bugie.


Il calcio. Anche io da piccolo ho giocato cu palluni. Con alcuni compagni di scuola ci vedevamo il pomeriggio in una traversa di via Archirafi. Una piccola strada. Cercavamo dei sassi per delimitare le porte. Poi si formavano le squadre. Non eravamo undici contro undici. Più spesso eravamo in tutto sei, qualche volta otto. Stabilire chi doveva giocare con chi e contro chi non era sempre facile deciderlo. Si cercava di equilibrare le due squadre. Uno bravo e uno scarso. Alla pari. Poi c'erano i due malcapitati che dovevano fare i portieri. Ruolo che nessuno, ma proprio nessuno, nemmeno fra i più scarsi al gioco, aspirava a coprire. Sudavamo come maiali. Daniele era il più pacchionello, il più sudato e forse anche il più imbranato di tutti. Per difendere il territorio - la nostra strada - da estranei invasori, si organizzò una volta una pitruliata. La pitruliata era una battaglia combattuta a distanza, tirandosi pietre. Non c'era un vero corpo a corpo. Qualcuno ne poteva uscire con un bernoccolo, ma a volte anche con delle ferite alla testa più o meno profonde. Mi capitò di tornare a casa con un piccolo squarcio nel cuoio capelluto. Lavai via il sangue e non dissi nulla a nessuno. In casa non se ne accorsero. Per fortuna era solo un colpo di striscio. Ma vuoi mettere? Avevamo messo in fuga gli invasori. Potevamo continuare a giocare nel nostro campo. Ed io ero un eroe.


Il salotto del professore Piraino. Boris ed io lo conoscemmo tramite amici comuni. Era un luogo straordinario, e non solo per l'arredamento e il bellissimo terrazzo. Lo andavamo a trovare spesso, praticamente tutte le sere. Su un tavolo di legno grezzo, ci serviva il caffè. Si chiacchierava del più e del meno, a volte sparlando qualche amico assente. Spesso, il professore ci mostrava qualche nuovo pezzo della sua collezione di abiti antichi. Aveva una stanza dedicata a questa sua passione. Vi erano anche dei manichini. Non antichi quanto i vestiti, ma separati comunque da poche generazioni. Uno di questi mi faceva impressione. Indossava un vestito nero merlettato che mi trasmetteva come una sensazione di morte. Il citofono della casa suonava di continuo. Arrivavano sempre nuovi amici. Quando non c'era più posto attorno al lungo tavolo, ci si divideva in gruppi distribuiti nelle varie stanze. In casa tutte le porte erano aperte, compresa quella della camera da letto. Rare volte capitò che la stanza fosse chiusa. Il motivo era uno solo. Qualcuno, per lo più il padrone di casa, la utilizzava per qualche incontro amoroso. Alle volte tutte le stanze, tranne quella della collezione, erano occupate da gruppi di amici. Diventava una specie di pub privato. Un viavai di persone, con nascite di amicizie e inimicizie, amori o lassatine. Da una stanza all'altra il contesto cambiava. Chi giocava a carte, chi ascoltava musica, chi chiacchierava, chi si godeva il fresco nel terrazzo vicino al profumatissimo gelsomino. Lì ho visto la caffetteria moka più grande al mondo. Lea, il cane alano con un carattere che la rendeva più simile al Pluto di Topolino.
E il salotto che tutti sogniamo.
Almeno io sì.

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