martedì 7 dicembre 2010

O almeno




La sua sputazzella mi arrivò sulle labbra
Ed io che ritenevo
se non maschio allora femmina
Mi sentii fecondato
Giorni dopo accarezzavo la pancia
racchiudeva una creatura
o almeno speravo
Il grembiulino nero
divisa scolastica
mimava un abito premaman
Passò diverso tempo
prima di giustificare la mancata gravidanza
Ero troppo piccolo
Dovevo finire almeno la scuola elementare.

mercoledì 17 novembre 2010

Ora era grande




impasto bene
la calda cenere
dove cova la magia
se questa carne ha cuore
senza paura
accetterò l'inganno




Da lontano si ha una visione d'insieme. Alcuni disegni risaltano meglio. Non si è distratti dai piccoli particolari. Mentalmente non sempre è così. Allora sono andato a riguardarlo. Con in mano la bottiglia da mezzo litro piena d'olio d'oliva. Non salire la prima rampa di scale a due a due come faceva sempre. Ma uno scalino alla volta. Per arrivare fino al quarto piano. Nell'ultima rampa di scale una parte dell'olio si versa per terra. Si era distratto, era inciampato in uno scalino e parte dell'olio adesso colava da un gradino all'altro. Lentamente. Lui si sedette su un gradino posò la bottiglia accanto a sè e chiuse gli occhi. Credeva che avrebbe ricevuto aiuto. Un ragazzino modello si meritava il miracolo. Passarono una decina di minuti prima che riaprisse gli occhi. Guardò la bottiglia. Il livello dell'olio non era cambiato.
Come avrebbe potuto presentarsi a casa? Guardava la porta in finto mogano e non aveva il coraggio di suonare il campanello.
Poi pensò al miracolo dell'olio non avvenuto. Al senso di abbandono e solitudine. Ad una porta che avrebbe attraversato con uno stato d'animo diverso da quando era uscito. Aveva preso coscienza che i miracoli o non esistono o non erano per lui. Che doveva affrontare il resto senza questa speranza. Anche quella porta di casa. Anche la responsabilità della caduta dell'olio.
Tirò un sospiro di sollievo e suono il campanello. Ora era grande.

domenica 3 ottobre 2010

Disamoramento: I love Milingo




Lo avevo già notato Big Jim. Sempre presente a tutti i cortei. Non si può non notarlo. Alto, portamento imponente, capelli brizzolati lunghi. Lo sguardo sempre cattivo. Lui mi minaccia perchè lo stavo fotografando.
“Non mi devi fotografare. Se mi fotografi ti aspetto qua fuori fino a stasera”
Ho chiesto di ripetermi la frase e l'ho visto mordersi l'angolo sinistro del labbro inferiore.
“Ripetilo di nuovo” gli dicevo “perchè la mia amica qui accanto non ha sentito”
Ha detto altro ma quella frase non l'ha voluta ripetere. Mentre i suoi occhi sembravano lanciare saette.
Io, sì, me le vado cercando. Faccio foto di nascosto alle persone. Ma questa volta la situazione è diversa. Abbiamo organizato una mostra nel mio negozio in occasione della visita del papa. “La papamobile del futuro”. Ma non contento ho voluto esporre insieme al collettivo “Tutti pazzi per il papa” uno striscione nella vetrina del mio negozio. “I ♥ Milingo”. Dopo una trentina di minuti si sono presentati agenti della Digos e poliziotti. Che con fare sbrigativo entrano nel mio negozio e strappano via lo striscione. Poi tolgono sempre dall'interno della mia vetrina un manifesto del coordinamento anarchico e la locandina della mostra. In negozio fra agenti in borghese e poliziotti in divisa saranno una decina
Big Jim stacca un plicoglass, con la locandina della mostra, appeso all'interno del negozio.
A quel punto lo blocco e gli urlo che lui non ha nessun diritto di toccare nulla all'interno del mio negozio. Interviene un agente in borghese e gli fa posare il picoglass.
Chiedo che escano fuori tutti dal mio negozio. Lo chiedo urlando. Restano all'interno solo due agenti Digos.
Ai quali riferisco le minacce fattemi dal poliziotto. Nessuna reazione.
Io vivo in un quartiere dove mi posso aspettare che qualcuno mi possa minacciare con frasi tipo:
“Non mi devi fotografare. Se mi fotografi ti aspetto qua fuori fino a stasera”
Tutto deve potersi aspettare un cittadino da un poliziotto in servizio, tranne minacce personali.
Mpersì e mpernò io l'ho scritto e voi lo state leggendo. Se dovessi ricevere una fraccata di legnate e non solo, qui ci sono gli indizi per scoprire il colpevole.

lunedì 27 settembre 2010

Qui è di casa




Un urlo animalesco nel cuore della notte, seguito da strepiti femminili. Non è luna piena, e non è un lupo mannaro. Sono le tre e mezza. Il teatrino notturno della tribù delle bionde è pronto a dare spettacolo.
“Ma perchè non ci si può divertire in famiglia?”.
Divertimento è sciacquettarsi nel fiume di coca che scorre alla Vucciria. Successivamente dar di matto per strada. In tre lo tengono per evitare che sbatta la testa. Lui a torso nudo e senza scarpe si dimena come in preda ad un attacco epilettico.
”Ninò” lo chiama quello che gli regge la testa. “Ninò, sangu miu, un fari accussì”. Ninò grughisce e si dimena continuamente. Parla di qualcosa che nessuno vede. Ognuna delle tre donne presenti dà indacazioni diverse su come proteggergli il capo. I quattro bambini sono scesi da casa e cominciano a scorrazzare per i vicoli. Inseguiti dalle urla delle loro rispettive madri. Ninò ha brevi pause di calma poi ricomincia a buttarsi per terra grugnendo e urlando. Dopo oltre un'ora decidono di chiamare un'ambulanza. Mentre la figlia grande, la più “allittrata”, telefona e parla con l'operatrice del... la madre le urla: “Dicci a dda pulla ca si smuvissi u culu e facissi venire l'ambulanzaaaa”. L'ambulanza parte dopo una terza telefonata. “Un ti preoccupare, ora veni l'ambulanza e nni facemu fare na gnizioni. Puru io ma fazzu fari” gli diceva Giovanni, lo stesso che prima gli reggeva la testa. Un'inezione. Ma di che?
Arrivano due infermieri insieme a due poliziotti. Ninò rivolgendosi a Giovanni: “U viri sti cammisi blu, io un'i pozzu viriri. Minchia e poi viri cu quali facci di merda su accumpagnati”.
Giovanni cercava di zittirlo ma con scarsi risultati. Poi Giovanni si allontana, all'angolo del vicolo chinando il busto e appoggiando la mano sinistra al muro inizia a vomitare. “Chi mi sentu maaaliii”. Non vomitando più spontaneamente si ficca in bocca l'indice e il medio della mano destra. “Chi mi sentu maaaliii”. La compagna accorre cominciando a chiedergli “Vuoi acqua e zuccaru? U bicaburnatu? Un limone? Chi ti portu?” e l'altro, credo più per restare al centro dell'attenzione che per un vero malore, ripeteva “Chi mi sentu maaaliii” alternandolo con “Minchia”.
“Minchia i scarpi mi futtero!!!” urla Ninò cercando di alzarsi dalla sedia per trovare le scarpe. Una delle donne và a casa ritornando poco dopo con le scarpe.
Naturalmente gli infermieri rimaserò basiti alla richiesta di una inezione da fare ai due baldi giovani. In verita Giovanni si era proposto di fare l'iniezione per solidarietà con Ninò. Li hanno fatti salire entrambi sull'ambulanza e sono andati via.
Le donne della nostra cara tribù rimaste a casa hanno naturalmente commentato l'accaduto. Sempre per strada e sempre con i ragazzini che si inseguivano urlando.
Intorno alle cinque arriva la calma.
Puntuale alle sei e mezzo suona la sveglia. Intontito faccio in automatico tutte le azioni per prepararmi prima di uscire per andare a lavorare. Incontro per strada una vicina che durante la notte avevo visto affacciata, attratta anche lei dallo spettacolo notturno. “Ma cosa è successo?” chiedo.
“Si sono ubriacati...” la interrompo guradandola negli occhi. “Non era solo alcol,” dico.
“No, vero, ubriachi erano”
“Seee”
“Allora, erano ubriachi e poi...” si porta la mano destra chiusa con il solo indice allungato sotto il naso “...e quindi. Ma un si fa accussì! Troppu, troppu!”
Mi è venuta in mente una vecchissima canzone che diceva “Si fa ma non si dice”. Qui dove scorre a fiumi. Fra uso e vendita. Qui che è di casa. Proprio qui non si nomina. Si può indicare con gesti o con altre parole.
Ma qui coca non si dice.

giovedì 9 settembre 2010

"Bastardi, vi farò fuori tutti!”




Lui è un supereroe. Dall'alto del palazzo, con il pugno sinistro alzato, pronto a lanciarsi sui malfattori. L'altro, pistola in pugno, lo costringe a scendere e posare i piedi per terra. Lo fa entrare in macchina e minacciandolo con la pistola lo fa guidare. Sorpassi spericolati. Frenate improvvise. Curve al limite del ribaltamento della macchina. Dopo cinque minuti di corsa sfrenata, al guidatore viene intimato di accostare. L'altro scende e inizia una sparatoria, non si capisce bene contro chi. Il nostro supereroe ne approfitta e si rifugia nell'ufficio postale. Qui viene inseguito e costretto ad uscire. L'altro, puntando la pistola mentre lo insegue, sussurra: “La mia vendetta sarà compiuta, non può restare impunita”. E gli spara con la sua pistola a freccette.
Incantato guardavo giocare i due bambini. La panchina trasformata ai loro occhi. Prima cima di un palazzo da dove il nostro supereroe controllava la città. Un attimo dopo era una macchina, e i ragazzini con il corpo mimavano i movimenti dell'auto. Poi diventava un muretto dietro il quale ripararsi da una mitragliata di colpi. Muretto dietro il quale il fuggitivo ripeteva: “Bastardi, vi farò fuori tutti!”. Aveva fiducia nella sua arma micidiale, quella non sbagliava mai un colpo.
Poi richiamati dalle rispettive madri i due bambini rientrarono nella realtà. Ridiventando quello che gli adulti si aspettano. Uno dei due con voce implorante chiede alla madre “Maaà, quannu m'accatti l'ipod?”.

lunedì 5 luglio 2010

Questa famiglia ariosa




Non una parola. Un ambasciatore e tre pezzi di carta. Una fotocopia di una tassa pagata, il modulo di una tassa da pagare e un assegno. Per risparmiare un quarto pezzo di carta, dietro la fotocopia il conto del “dovuto”. Cercavo aiuto, un conforto, un fratello, una sorella. Mi hanno dato il “dovuto”. Attraverso un intermediario. Per mantenere le distanze per non dare risposte, ma soldi.
E il cugino che fa da ambasciatore non sa nulla. Deve solo consegnare i pezzi di carta. “La famiglia è il bene più prezioso che hai...non dimenticarlo mai !!!”. Non è il sangue che fa famiglia ma le relazioni. Non è la consegna, da parte di un terzo, del “dovuto” che mi avvicina a mio fratello, né il silenzio, davanti un appello di aiuto, mi rende più cara mia sorella.
Siamo cocci di un vaso rotto. Irreparabilmente.
“No, non puoi rifiutare l’assegno. Faresti uno sgarbo a me.”
Poi ha il gelato in macchina, non può ascoltare la mia opinione, gli si scioglierebbe tutto lui è passato per lasciare i tre pezzi di carta e andare via. E poi il gelato starà già colando, un saluto una stretta di mano e un “ci parru io cu tò frati” non richiesto.
E questa loro famiglia mi sembra sempre più ariosa. Proprio come una camera a gas.  

sabato 3 luglio 2010

Polvere




Si rifà il manto stradale. Quasi ogni anno in questo periodo si rifà il manto stradale. Giusto giusto pochi giorni prima del Festino. Il manto stradale viene scarificato. Incidendo la superficie si crea della polvere. Polvere non molto salubre. Se il lavoro viene svolto in poco tempo, il disaggio è minimo. Non quando invece si lascia la strada scarificata per ben quattro giorni. In una via di Palermo, corso Vittorio Emanuele, diventata una strada da villaggio del far-west. Solo che da questa strada passano autobus, camion, automobili. E non rallentano. Ogni autobus, ogni auto, ogni camion alza una nuvola di polvere. Polvere che si posa ovunque. Polvere che ci costringe a tenere la porta chiusa del nostro negozio. Penso alla salumeria, al forno, ai bar, alla friggitoria. Questa polvere di asfalto scarificato che si posa su tutto cibo compreso. Penetra anche nei polmoni. Ne sentiamo il sapore in bocca. Faccio un giro di telefonate. Al comune mi dicono che devo rivolgermi all'Ufficio d'Igiene. Quando chiedo il numero di telefono mi dice che mi ha dato già l'informazione. E il numero di telefono? Non lo sa e mi invita a cercarmelo. La giornalista vuole che faccia io il suo mestiere. Scriva una lettera. La invito a fare il suo lavoro e verificare ciò che dico. Venga a vedere. Ma non è venuta. Il consigliere si nega. 
E qui continuiamo a respirare polvere. 
Alcuni di noi cominciano a buttare acqua per la strada per “scarmiri” la polvere. Ma il caldo è contro di noi. Nel giro di poco tempo ritorna tutto come prima. Un'autobotte del comune che bagni corso Vittorio è da paese civile, ma qui siamo a Palermo. Il sindaco è un certo Cammarata
Da quattro giorni una strada del centro storico viene trasformata a quella di oltre cento anni fa. Nessuno tranne qualche commerciante si indigna. Butta acqua per strada per “scarmire” anche la rabbia. Che proviene dal sentirsi suddito, in una città ai confini della realtà.

giovedì 1 luglio 2010

Per una strisciata





Stavo alzando la saracinesca del negozio. La strada alle sei del mattino è deserta. Solo il bar di fronte è aperto. Il sole colorava di rosso la strada. Un rumore di bottiglie attira la mia attenzione. Qualcuno sta spargendo per strada l’immondizia che era stata lasciata in un angolo. Guardo ma non riconosco la persona. Poi lo vedo fermarsi al bar. Lo stesso dove vado ogni mattina. Lì lo incontro. Mentre sfoglio il giornale in attesa del mio latte macchiato tiepido, inizia ad inveire contro tutti gli extracomunitari. Rumeni in testa. Sono sporchi. Tutti. Soprattutto i rumeni. Stanno insozzando Palermo. Tunisini, marocchini, zingari, rumeni. Non riesco a trattenermi e dico: “E palermitani”.
“No, i palermitani no. E poi chi c’entra! unn'è u stissu.”
Per me la munnizza è munnizza, e vedo moltissimi palermitani che lasciano il sacchetto all’angolo della strada. Con indifferenza, con un “Ops! Mi è caduto”.
Il tizio comincia a scaldarsi. Senza alcun motivo. Mi sembra un esaltato. Si offende perchè si sente paragonato da me ad un rumeno. Vuole delle scuse, non capisco per cosa. Nel frattempo con una mano mi spinge la spalla. Io mi allontano e finisco il mio latte macchiato. Esco dal bar e mi avvia verso il negozio. Lui dall’ingresso del bar comincia ad inveire contro di me.
Colorite espressioni urlate alle sei e un quarto. In una strada deserta e sempre più arrossata dal sole. Tutto un rosario di invettive. Da “Sei un pezzo di merda” passando per “Si l’ultimu omu di sta terra”.
Apro il negozio e cerco di dimenticare. Vedo il suo motorino fermarsi davanti il mio negozio. Appoggiandosi alla cassa si sporge verso di me. Urlando chiede delle scuse per non so cosa. Mentre lui sbraita guardo il monitor del computer cercando di ignorarlo. Si scalda sempre di più. Pretende che lo guardi negli occhi e gli risponda. Lo guardo un attimo negli occhi. Occhi lucidi, pupille piccolissime. Sicuramente ha iniziato la giornata con una strisciata.
“Non rispondo quando si usa questo tono” gli dico.
Sempre più eccitato mi minaccia. Cerco di non perdere la calma. Mi ci paro davanti. Lui si avvicina all’entrata del negozio e prima di andarsene mi urla:
“E quannu ma vò sucari u sai unni staiu” e se ne va.
Rimango a pensare che, primo non so dove abita. Ma so che sua madre esercita la professione più antica del mondo. E lo fa con discrezione e professionalità. Veramente.
Secondo: pur conoscendolo non mi è balenata per la testa l’idea. Proprio il conoscerlo esclude l’idea.
Terzo: perdere la testa per me, non giustifica tutto questo teatrino.
Poi ho riso ascoltando una canzoncina. Ed è iniziata un’altra giornata.

mercoledì 23 giugno 2010

Fra Zanardi, Bukowsky ed Eliseo





Stanno riparando il bagno di casa. Il pavimento stava crollando. E sono ospite. Un amico gentilissimo mi ospita. Da quasi due settimane. Io ho le chiavi di casa. Lui va via la mattina alle nove e torna la sera alle ventuno. Giuggiola, la mia gatta, si è ambientata quasi completamente. A pranzo mangio da solo. Ieri con quel terribile caldo volevo essere sbrigativo. Qualcosa da cucinare alla svelta. Cicireddu. Li ho visti dal pescivendolo. Freschissimo. “Sapi ancora di mari” mi diceva. Io pensai subito olio e limone. Gli do un bollore e li condisco con olio e limone. Dove sono ospite, c'è una piantina di prezzemolo. Una spruzzatina non ci sarebbe stata male.
La giornata è caldissima. Tutto sudato, dopo aver pagato il pesce, mi avvio verso casa. Lì almeno avrei trovato un poco di frescura. Mi sarei fatto una doccia. Avrei bollito il pesce. E dopo averlo condito con olio, limone e prezzemolo, ancora tiepido, lo avrei mangiato. Il sudore usciva copioso dalla mia testa. Qualche goccia mi entrò nell’occhio destro. Lo chiusi per il bruciore.
Comincio a cercare le chiavi nella borsa che mi porto dietro. Queste sono del negozio, queste di casa mia. E la macchinetta fotografica. E la cuffietta. E le chiavi? Non trovavo le chiavi della casa dove ero ospite. Niente, non ci sono. Non ci sono nelle tasche dei pantaloni. Poi mi affiora un dubbio. Ma questa mattina le ho preso o le ho lasciate sul tavolo della cucina? Era inutile ormai stabilire dove fossero. Io non potevo ritornare nella casa dove ero ospite. Ne parlo in negozio. Si offre di ospitarmi Eliseo. “Ho tutto a casa, ti puoi fare una doccia. L’asciugamano lo trovi nell’armadietto dentro il bagno. Ti puoi riposare sul mio letto. Io arrivo più tardi”.
Già tutto sudato fradicio mi avvio verso casa sua. Penso alla stranezza di un campanello di casa dove sta scritto “Raimondo”. E in quella casa nessuno si chiama Raimondo. Penso alle scale che dovrò salire quando arrivo davanti il portone. Quattro piani. Quattro lunghissimi piani. Oltre cento gradini. L’ultima rampa è il colpo finale. Arrivo davanti la porta con il cuore in gola. Sfinito e inzuppato di sudore. Attraverso la doppia porta prima di arrivare nell’appartamento di Eliseo. Il caldo all’interno è peggio di fuori. Accendo il ventilatore. Fisso fa un rumore simile ad una vaporiera, uuuuuuuuuuuu. Se si fa girare si aggiunge una specie di rumore di lamiera. Quindi, fisso. Uuuuuuuuu. E uuuuuuuuu. Alla fine fonde il cervello e non lo senti piùuuuuuuuuu.
Vado ad aprire il terrazzino per vedere di creare una corrente d’aria. Una zaffata di puzza di merda di cane mi si attacca addosso. Ritorno in cucina, metto sul fuoco un pentolino con dell’acqua e sale. Apro il frigo alla ricerca di un limone. Ma anche mezzo. Nulla. Come si fa spesso in questi casi, si chiude il frigo, poi lo si riapre e si ricontrolla. Qualcuno diceva che lo facciamo nella speranza che la seconda volta si troverà quello che non c’era nella prima ispezione. Sicuro che in frigo non ci sono limoni, comincio a guardare nei cestini, dove ci sono patate e cipolle. Nulla. Nell’angolo accanto al lavello. Nei posti più impensati. Per scoprire dopo tanta ricerca che un limone c’era. Tagliato a metà. Nel secchio della spazzatura. Decido: niente limone. Semplice, semplice. Solo olio. Trovo quattro bottiglie d’olio vuote. Butto il pesce nell’acqua. Preparo il piatto. Scolo i pesci. Con la “sculatura” delle quattro bottiglie arrivo a circa mezzo cucchiaio d’olio. Lo verso sui pesci. Basta e avanza. Buonissimi.
Sto finendo di mangiare quando rincasa Eliseo con Sally, la sua cagna. Chiacchieriamo sentenziando su questo o quello.
“Ma è una tisana?” gli dico indicando un barattolo.
“No, sminuzzaglie di erba”
“Della tua pianta?”
“Sì, alla fine rimangono foglioline spezzettate e qualche frammento di giummo”
“Posso?”
“Sì, sì”
Mi rollo la sigaretta. Dopo averla fumata decido di buttarmi sul letto di Eliseo. Sperando di poter riposare una mezz’ora. Appena disteso noto che la stanza da letto é molto più fresca dell’altra sala. Fresco e silenzio con il sottofondo del ventilatore. Uuuuuuuuuu. Con gli occhi chiusi pensavo a paesi esotici, un ventilatore a pale appeso al soffitto, tende che si agitano al venticello, una brocca d’acqua che trasuda. Mi stavo addormentando su queste scene tratte rigorosamente da film in bianco e nero. Quando:
“MINCHIAASPAGNACIFICIRUUNCULUACCUSSI’ ”
Non rende, anche se scritto così, il fastidio provato. Era arrivato il ragazzo che condivide l’appartamento con Eliseo. Con voce molto alta continua a descrivere quel cavolo di partita. Fortunatamente Eliseo era preso dal computer. Giochino? Scommesse? Qualcosa del genere. E non poteva distrarsi per commentare la partita. Tutto stava ritornando nella pace precedente. Cominciavo ad assaporare il cuscino, quando sento solleticarmi la pianta del piede destro. Penso fosse arrivata Stefania e si volesse far sentire. O Eliseo, per farmi uno scherzo. Apro gli occhi, guardo ai piedi del letto. Da lì vedo spuntare la bruna coda con la macchiolina bianca di Sally. Aveva trovato interessante leccarmi le piante dei piedi. Vistomi sveglio fece un tentativo di salire sul letto. Decisi di alzarmi ponendomi come metà un caffè al bar all’angolo della strada. Ma prima una doccia. Naturalmente dentro l’armadietto del bagno niente asciugamani. O meglio ce n'erano due piccolini. Dimensioni da mi asciugo le mani e lo vado a stendere. Accorre Eliseo porgendomi quello che non avevo trovato.
La doccia con la tendina su tre lati. Quella tendina, che appena scorre dell’acqua calda, tende ad attaccarsi al corpo. E ci si fa piccoli piccoli per evitare il contatto con la tendina. La bottiglia del bagnoschiuma sul piatto della doccia. Portava i segni di vari tentativi di far uscire ulteriore bagnoschiuma. Mi rivolgo alla saponetta sul lavandino. Grande quanto le palle di Mozart (famosi cioccolatini ). Mi sembrava troppo chiedergli di insaponarmi tutto. Cosi insaponai solo la faccia, le ascelle e i gioielli. Sempre cercando di evitare la tendina lascio scorrere l’acqua per sciacquarmi. Mi asciugo e alla fine scopro una cicca di gomma attaccata sull’asciugamani. Ero finito all’interno di un fumetto. Di quelli sporchi e cattivi. Dove la vittima ero io.
“Niente caffè, però ho della sambuca”.
Gli rispondo che va bene anche la sambuca. La versa in due tazzine da caffè. Continuavo a cercare di arrivare all’ultima pagina di quella strana storia. Fra un sorso e l’altro mi dice che me le vado cercando e mi piace fare la vittima.
“...quando invece il limone c’era. Anzi nel sacchetto della spazzatura c’era anche un limone mezzo muffito.”
“Ma, dici vero?”
“L’olio c’era pure. Vedi qui, nello scomparto dei detersivi, in questa bottiglia di plastica. Questo è olio”.
“Ma ne ho conferma ora”.
“Non ti piaceva quel limone? Ci potevi mettere dello zenzero”.
“Seee, come la sambuca nella salsiccia. Ma va…”
Alla fine l’uscita era la solita. Il portone dove su un campanello è scritto “Raimondo”. Da lì si esce da una storia a fumetti. Di quelli duri e cazzuti.Fra Zanardi e Bukowsky.

venerdì 18 giugno 2010

Salva Altroquando salva il mondo: a che punto siamo?





E’ trascorsa poco più di una settimana da quando la fumetteria AltroQuando ha lanciato il suo appello alla città di Palermo. La nostra attività ventennale rischiava la chiusura a causa dei debiti e delle scelte poste in atto dal fornitore che aveva sospeso la consegna delle merci alla nostra libreria. L’appello redatto in fretta e diffuso su Internet era stato, da parte nostra, un gesto estremo. Quasi il grido di un animale ferito che già guarda negli occhi la fine della propria esistenza e urla che “non è giusto”.

Oggi, a distanza di pochi giorni, il nostro stato d’animo è radicalmente cambiato. La tristezza ha lasciato posto all’entusiasmo. La collera alla commozione. La risposta solidale di una fetta così larga di popolazione, non soltanto palermitana, ha fatto sì che lo spettro della chiusura fosse per il momento allontanato. L’intervento amichevole dei fumettisti di Palermo, in buona parte sbocciati e cresciuti tra i fumetti di AltroQuando, si è dimostrato il più prezioso dei riconoscimenti per le nostre fatiche passate. Anche l’affettuosa partecipazione di altri artisti italiani del settore ha significato molto. Così per il mondo della cultura e dello spettacolo palermitani. L’aiuto della cittadinanza, che ha scelto di non rassegnarsi a veder sparire un’altra realtà storica del Cassaro, ed è intervenuta con acquisti solidali e l’apertura di crediti per compere future. La splendida asta di tavole originali svoltasi presso il Circolo Malaussène lo scorso 12 Giugno, e tutta la solidarietà giunta da più parti, non ha soltanto fornito ad AltroQuando quell’ossigeno che gli serviva per rialzarsi e riprendere a lottare. Ha mutato e arricchito il nostro modo di vedere il mondo, e ci ha reso forse tutti un po’ migliori di ieri.
Adesso, superata in modo lieto la fase del pronto soccorso, la situazione della nostra fumetteria rimane precaria e tuttora incerta. La strada da percorrere per uscire definitivamente dalla tunnel e poter dire che AltroQuando è salvo è ancora lunga. Sono tante le iniziative in fase di studio che presto seguiranno. Ma oggi, con l’aiuto di tutti voi, sappiamo che possiamo farcela.

AltroQuando ringrazia tutti. Ogni aiuto, piccolo e grande, è stato fondamentale per superare il momento peggiore. E ringrazierà pubblicamente oggi, Venerdì 18 Giugno alle ore 17,00, presso i propri spazi di via Vittorio Emanuele 143, offrendo un aperitivo a quanti avranno il piacere di ritrovarsi con noi. Alcuni dei fumettisti che hanno animato l’asta al Malaussène saranno dei nostri, e disegneranno ancora, a beneficio dei presenti. Tutti sono invitati, e a tutti va il più sincero ringraziamento della nostra fumetteria.

Salva AltroQuando... Salva il mondo!

martedì 15 giugno 2010

Obiezione di coscienza



In questi giorni di fermento per la preparazione del primo Gay Pride a Palermo, mi piace riproporre il testo della mia obiezione di coscienza al servizio militare, che risale a circa quarant'anni fa. In quegli anni il servizio militare era obbligatorio. Gli omosessuali dichiarati, con un atto discriminatorio, venivano esentati dal servizio. Erano anni nei quali perfino L'Internazionale, giornale anarchico, riteneva la mia omosessualità qualcosa di cui non era il caso parlare.
Il testo fu inserito all'interno del "Manifesto per la rivoluzione morale" (http://www.cybercore.com/consoli/documenti.htm)
Il manifesto curato da Luciano Massimo Consoli lo stampammo con un ciclostile, era il 1971.



"Amsterdam, 19/4/71
Io, sottoscritto Salvatore Adelfio, nato a Palermo il 5/12/51, dichiaro, in perfetta coerenza con le mie idee morali, di rifiutarmi di prestare il servizio militare perché anarchico e omosessuale. Come anarchico, profondamente radicato nella convinzione che ogni forma di autorità costituisca una violenza alla libera autodeterminazione, la mia coscienza si ribella anche al solo pensiero di dovere sottomettere la mia individualità a qualcosa o qualcuno (“patria”, “nazione”, “governo”, “esercito”, “generali”...) che di me userebbero come strumento dei loro fini di classe al potere. Come omosessuale mi sembra autolesionismo masochistico contribuire, sia pure in minima parte, alla difesa, al potenziamento o al mantenimento di un ordine sociale innaturalmente oppressivo e repressivo delle mie aspirazioni più profonde e più in me radicate, che m’impedisce il libero sviluppo della mia personalità nei modi e con i mezzi di cui la natura mi ha fornito e dei quali ha voluto concedermi l’uso. Desidero precisare che la mia non è una mera posizione di principio. Non sono contrario al servizio militare in quanto tale, ma poiché esso è un mezzo autoritario attraverso il quale la classe al potere mantiene ed accresce i propri privilegi a scapito della libertà economica, politica, religiosa, sessuale, morale... dei singoli individui. In una comunità veramente libera, la cui funzione più rilevante fosse la necessità di adattare la società ai bisogni e ai desideri dell’uomo e non viceversa; nella quale le donne fossero considerate come esseri umani di sesso femminile e non un”’appendice” del maschio; nella quale l’omofilia fosse compresa come una differenza di sviluppo sessuo-emozionale e non una perversione, o un’inversione, o un vizio o, quando proprio si vuol sembrare tolleranti, una malattia; nella quale ad ogni singolo individuo venga fornita la possibilità pratica di realizzare se stesso nei modi e con i mezzi più confacentisi alla sua personalità... in una società siffatta avrei considerato mio preciso dovere, da assolvere fino in fondo, la difesa della comunità nella quale vivevo, anche attraverso la prestazione del servizio militare

Salvatore Adelfio”.

lunedì 7 giugno 2010

SOS da Altroquando





AltroQuando è in difficoltà economica e chiede aiuto.

Lo facciamo con un pizzico di vergogna. Ma la situazione è critica, e chiediamo aiuto.

AltroQuando è nato a Palermo nel 1991, in un momento storico in cui le fumetterie italiane non esistevano se non come botteghe dell'usato. AltroQuando, per primo, ha introdotto nel capoluogo siciliano l'idea di libreria specializzata nel settore, portando il fumetto europeo, giapponese, americano, dai chioschi delle edicole alla ribalta della vetrina. Qualcosa che all'epoca sembrava stravagante, ma che rappresentava in realtà l'inizio dello sdoganamento culturale del media fumetto. Da prodotto commerciale di nicchia e lettura per la sola infanzia a intrattenimento sofisticato e veicolo culturale.

AltroQuando è stato un punto d'incontro per molti giovani artisti cresciuti insieme alla libreria, alcuni dei quali avrebbero in seguito intrapreso un cammino professionale. La produzione, curata dalla fumetteria, di fanzine (Burp, Il Cassonetto) come di mostre personali e collettive (Sguardi e Visioni) ha contribuito a sviluppare l'humus culturale dal quale sarebbero sorti autori oggi emergenti (Sergio Algozzino, Claudio Stassi, Giuseppe Lo Bocchiaro e tanti altri) e a gettare le basi per la Scuola del Fumetto di Palermo. Tutte realtà che avrebbero faticato a consolidarsi in un panorama cittadino dove il fumetto era ancora un oggetto di culto per pochi.

AltroQuando ha scelto di non fermarsi al mero commercio e alla presentazione dei titoli di maggiore richiamo, ma di guardare oltre e ungere gli ingranaggi. Per questo, in vent'anni di attività, ha coraggiosamente promosso numerose etichette editoriali indipendenti che nelle fumetterie delle maggiori città italiane non trovavano visibilità. Il grande successo della serie Rat-Man, di Leo Ortolani, anch'esso nato come autoproduzione prima del grande balzo professionale, è contato tra i titoli tenuti a battesimo e caldeggiati dalla nostra libreria. E dell'attuale, meritata, popolarità raggiunta da autore e personaggio ci sentiamo particolarmente onorati.

Ma AltroQuando non è stato solo questo, e si è aperto all'espressione artistica a 360 gradi, con le oltre ottanta mostre allestite. Eventi culturali in cui trovavano spazio e ascolto nuove leve della fotografia, della pittura, della grafica sperimentale, della scultura e delle più disparate forme di sperimentazione artistica. AltroQuando ha voluto rompere i confini delle convenzioni e non arenarsi nel semplice ruolo di attività commerciale. Per questo, negli anni, è sempre stato vicino a tutte quelle voci che proponevano un cambiamento. Ne sono esempio le collaborazioni con la rivista Cyberzone e il movimento antiprobizionista. Il sostegno ai centri sociali (ZetaLAB, Ex Carcere) e alla cultura LGBT, con l'apertura di un apposito spazio della libreria e la produzione in proprio della fanzine WOOF!, fino alla recente adesione al primo Gay Pride regionale che avrà luogo nella città di Palermo.

In circa vent'anni di attività, AltroQuando ha fornito alla sua clientela un servizio mai visto altrove nella nostra città, garantendo gratuitamente abbonamenti a fumetti e riviste, spesso con fatica e, con l'avanzare della crisi economica, qualche volta a denti stretti. Ma sempre con una disponibilità e urbanità che ci sentiamo di definire uniche nel nostro ambito lavorativo, spesso così frettoloso e poco attento alle sensibilità degli individui.

La crisi globale, tuttavia, non guarda in faccia nessuno e anche Altroquando oggi si trova in ginocchio. Le mille difficoltà hanno portato a un'inevitabile ritardo di un mese nei pagamenti, e il distributore Alastor, dove ci forniamo, ha bloccato le spedizione delle novità alla nostra fumetteria, decretando, di fatto, la sentenza di morte per la ventennale esperienza di AltroQuando. Un destino che potrebbe essere scongiurato solo dal saldo della fattura entro il 15 Giugno 2010.

Chiediamo dunque l'aiuto di tutti voi, affinché AltroQuando possa continuare a esistere.
Personalmente, pensiamo che la chiusura di una realtà come AltroQuando lascerebbe un vuoto significativo nella città di Palermo. Un vuoto per chi ama il fumetto nelle sue molte forme, per chi è interessato a conoscere e seguire voci e idee culturali fuori del coro.
Sta a voi decidere se ci sbagliamo o no.




P.S.
Una precisazione: noi non chiediamo a nessuno di donare soldi ad AltroQuando, nè lo sta facendo Altroquando stesso. Con questa pagina e con la varie iniziative vogliamo solo spingere la gente a comprare qualche fumetto in più in questo momento di difficoltà!

giovedì 27 maggio 2010

martedì 25 maggio 2010

Mare, mare, mare.




Quella processione di onde questa volta lo turbarono. Dalla panchina guardava il mare che si perdeva a vista d'occhio. Era andato lì per cercare di alleviare la tensione. Distendersi lontano da tutti. Poi venne a galla il fardello. Quello pieno di ricordi pesanti. Di amore non dato o non ricevuto. E subbì un attacco di autocommiserazione. Guardò davanti a sè. Sembrava gli arrivasse un invito, due braccia pronte ad accoglierlo. Quasi amorevolmente. Un unirsi in un abbraccio purificante. Con la grande madre consolatrice. Il ritorno al nulla. Pensò all'indomito guerriero. Sua figura identificativa. Come avrebbe reagito? Come reaggirebbe ora, adesso? Testa alta petto in fuori e vento contro? Sì, ma davanti a questa scelta il guerriero si farebbe sfuggire una lacrima? Si abbandonerebbe all'invito? O lancia in resta e testa alta affronterebbe il peggio?
Lui, non il guerriero, lasciò che le lacrime sgorgassero liberamente. Poi prese la postura da guerriero. Donò al mare il pesante fardello. E si avviò verso casa.
Dicono che ci sia una soglia superata la quale non si senta più dolore. E un sasso o una piuma in più non portano modifiche rilevanti nel fardello.

lunedì 24 maggio 2010

martedì 4 maggio 2010

Tre carte da mille e una da duemila lire




Tre carte da mille e una da duemila lire. Lui aveva parlato di offerta libera. Io mi ero fatto i conti in tasca. E venne fuori quella cifra. L'avevo incontrato seduto su una panchina della villa Giulia. Dopo un suo cenno di saluto, mi sono seduto accanto a lui. I suoi baffi brizzolati scintillavano alla luce del sole. Ci scambiamo qualche battuta. Di dove sei? Quanti anni hai? Quindi lui va subito al sodo. Mi dice che ha bisogno di soldi. Sorride ammiccante. Io resto in silenzio. Non so che decidere. Poi mi giro verso di lui e contrariamente a quello che pensavo dico: “Va bene, andiamo”.
Diretti a casa sua. Camminando in silenzio. Unico scambio di parole per dirmi di entrare nel portone dopo di lui, non insieme. Il portone era di ferro e tutto quanto arruginito. Senza toppa. Appena entrati, sulla sinistra, una enorme scritta tracciata con vernice rossa come benvenuto: “SUCA”.
I gradini per arrivare al primo piano pieni di rifiuti. Cicche, involucri di merendine, mucchi di polvere, uno scarafaggio morto, lattine di coca, pacchetti di sigarette vuoti.
All'interno della casa pochi mobili un materasso ad una piazza buttato per terra, nella seconda stanza un letto matrimoniale. Su una parete della seconda stanza una montagna di coperte e vestiti accatastati quasi fino al tetto.
Lui si spoglia e si sdraia sul materasso per terra. Io mi metto accanto a lui. Tutto si svolge in silenzio. Alla fine mi indica un lavandino in cucina dove sciacquarmi. Ma non c'è nulla per asciugarsi. Lui gira per casa con un enorme telo bianco avvolto intorno alla vita. Mentre mi vesto mi chiede cosa pensassi della “prestazione”. Si allontana un attimo per controllare della biancheria stesa fuori sul balcone. Io ne approfitto e mi preparo i soldi da dargli. Lui prende da una mensola una bottiglia di alcol denaturato e se lo spruzza prima nelle mani e poi sul petto. Appena sono vestito mi si para davanti. Mi sorride e inclina la testa. Come a dire: “Quanto mi dai?”. La sua presenza andava bene, la sua ”prestazione” un pò meno. Cinquemila. Lui mi fa capire che gli sembrano pochi. Mi bacia sulla guancia e mi accompagna alla porta.
Minchia! Appena fuori sono colpito prima da un senso di colpa enorme. Poi avvilimento. Io ho pagato per fare sesso con un uomo. Sentivo la vergogna tutta mia.
Però, però tornai diverse volte a sedermi su quella panchina della villa Giulia. Come un assassino ritornai più volte sul luogo del delitto. Sperando di incontralo ancora. Capendo alla fine il motivo del ritorno. Si spera che rivivendo l'episodio si possa apportare qualche modifica. Poter cambiare il finale. Speranza vana ma dura a morire.
Il rospo rimase una decina di giorni, prima di essere completamente disciolto e digerito. Per trasformarsi negli anni in un' esperienza visssuta da poter raccontare.

lunedì 19 aprile 2010

Se vuole glielo posso descrivere




“Se vuole glielo posso descrivere”
La mia gatta era salita sul tavolo e mi guardava perplessa.
“Se vuole (pausa) glielo posso descrivere”
Ripeto cercando di dare naturalezza alle frasi. E memorizzarle. Non ci avevo pensato che dovevo impararle a memoria. Proprio come a scuola con le poesie. Lo facevo all'ultimo momento. 'mpiccicata ca sputazza. Come allora adesso dopo essere uscito di casa ripetevo le battutte a voce alta.
L'invito mi era arrivato via e-mail. Mi si chiedeva se mi andava di fare un provino per un telefilm. Avevo risposto di sì. La cosa che più mi ha divertito é stato il ruolo che avrei dovuto interpretare. Un prete.
“Se vuole glielo posso descrivere”
Una ragazzina mi ha sentito e si é girata a guardarmi.
Faccio un giro lungo per arrivare a S.Chiara dove avevamo l'appuntamento. La piazza deserta. Mi aspettavo la confusione di un casting. Mi ero preparato a scattare foto ai pretendenti il mio stesso ruolo. Nessuno. Nell'atrio una macchinetta per il caffé. Esco fuori. Un ragazzo entra si fa un caffé, poi si allontana con il biccherino in mano. Mi assale un dubbio. Comincio a chiedermi e se fosse tutto uno scherzo? Ho amici capaci di farlo. Cerco in giro tracce di qualcuno o qualcosa. Niente.
Un signore canuto, con baffetti ben curati, esce dall'atrio. Subito dopo un ragazzo in t-shirt nera mi viene incontro. “Sono del casting, si accomodi”.
Mi lascia in una stanza con la ragazza. La stessa che che mi ha contattato. Elisa. Gentilissima mi fa ripetere la parte, facendo lei le veci del mio interlocutore. Mi indica come porgere meglio le battute. Di non arretrare. Non guardare in macchina. Prendere la postura giusta da prete. Poi finalmente si gira. “Azione”
“Se vuole glielo posso descrivere”...
Mi dicono che é andata bene. Breve intervista filmata. Stop.
Si faranno sentire.
Ritorno a casa e naturalmente ci fantastico su. Poi vado indietro nel tempo. Dentro uno sgabuzzino. Insieme ad altri bambini. A recitare una storia inventata lì per lì. Costruendo un mondo con una parola. Prendendo sul serio il ruolo, piangendo davvero per la perdita di un componente la nostra compagnia di eroi. E mi piaceva.
“Se vuole glielo posso descrivere”

martedì 6 aprile 2010

Un attimo di meditazione




Mi sa di conforto e nostalgia. E poi la sua semplicità è disarmante. Acqua, sale, pastina, olio, formaggio grattugiato. La minestrina. Il mio amore iniziò a San Vito lo Capo. Dove i miei mi mandavano a passare tre mesi nella colonia estiva. Sotto falso nome. Lì, gustando delle lingue di passero in brodo sentii il mio corpo riscaldarsi. Come se ricevesse quell'abbraccio tanto desiderato.
Sì, le minestrine sono calde, corroboranti, qualche volta aromatiche, salutari, leggere, idratanti. Ma non le amo solo per questo. Hanno la liquidità legata all'infazia. La nostra alimentazione inizia con pappine, semolino, minestrine. E ogni cucchiaiata è un legame di affetto, un debito di riconoscenza.
Una volta cresciuto, i miei, non mi preparavano più minestrine. Eccezione era il semolino. Con solo due alternative o con i finocchietti selvatici o con i broccoli. Loro miravano al barocco e la pastina quando usata andava bene nei minestroni o in zuppe varie. Ma da sola no. Troppo povera, funzionale, essenziale. Bahaus contro barocco.
E loro palermitani veraci miravano a piatti elaborati. Con le sarde, con il sugo, con broccoli in tegame. Veri amanti del barocco.
Desiderare una semplice pastina era considerato un sintomo di malore. In famiglia la semplicità veniva considerata un caso di malattia. Come quella volta che in gelateria scelsi un gelato al limone e mia madre mi chiese se avessi mal di stomaco. Perchè un ragazzino, con tanti gusti a disposizione, non poteva scegliere il gelato più semplice e naturale.
Nella loro semplicità le minestrine hanno infinite varianti. Basta poco. Un poco di succo di limone. O un uovo e prezzemolo. E perché no, anche con un dado.
Puro slow food. Perché le devi dedicare tempo mentre la mangi. Richiede attenzione. Perché la minestrina é un tuffo in un abbraccio. Un attimo di meditazione.

lunedì 29 marzo 2010

Lettera


non riuscendo più a mordere la vita
strani sogni con pesi diversi
mi inseguono
ma a chi importa
quando tutto è stato giocato
e si aspetta l'esito scontato
solo
con l'ansia del momento
rimettendo nel fallace contenitore
tutti i ricordi
come fossero zavorra



Ti ricordi l'ultima volta che ci siamo parlati? Io sì. Ti accompagnavo da una zia dove andavi a fare la sartina. Lungo la strada fantasticavamo su un viaggio in elicottero. Verso Genova, per andare a trovare Mariuccia. Questo più o meno quarant'anni fa. Non è che non ci siamo più rivisti, ma il nostro parlarci era a base di convenevoli.
Io non so nulla di te e così tu di me. Non sono qui a distribuire sensi di colpa. Ma a raccontare il mio punto di vista. I sensi di colpa li ho abbandonati strada facendo. Mi sono isolato per rispetto della mia dignità. Tranne l'appoggio muto di papà, in casa ero un extraterrestre. Il peso da sopportare. E sono fuggito più volte. Prima a Pisa poi Amsterdam. E da lì scrivevo due lettere pur ricevendone una. Quella con banalità spedita a casa, e quella invece in cui parlavo apertamente dei motivi della mia fuga indirizzata a papà presso l'officina dell'Amat.
Di Pino ricordo che da piccolo o mi terrorizzava o mi ricattava. Poi da adulto decisi che era pur sempre mio fratello e che non potevo allontanarlo per stupidate da bambini. E cominciai a frequentare casa sua. Ma quando i solchi fra due persone sono profondi è difficile riuscere a colmarli tutti. Nella nostra famiglia parliamo con il cibo. La mamma dimostrava il suo affetto conservandomi la cena. Pur sapendo che avrei cenato fuori. Tutte le sere per diversi anni mi faceva trovare il mio piatto sul tavolo della cucina. Pino quando andavo a trovarlo imbandiva la tavola con antipasti vari, pasta al forno, secondo, contorno e dolce. Ed era tutto quello che sapeva raccontarmi. Il resto era silenzio e banalità. O, peggio, televisione.
Ed io? Io ho vissuto per anni con sensi di colpa enormi. Che mi portavano a chinare il capo e rinchiudermi in me stesso. Ero la bocca della verità, perchè avevo qualcosa che non riuscivo a dire.
Almeno a voi. E mi faceva male. Gli estranei lo capivano e capivano i miei sguardi. Mentre in famiglia ero quello “beat”.
Quello strano, che se scrive dicendo che non è “quello beat” ma semplicemente omosessuale non riceve risposta. Oppure da un altro la riceve ma non ne vuole parlare. Lui preferiva parlare con la Madonna e seguire il suggerimento di farsi prete.
Io il consiglio lo avuto dalla vita. Avrei desiderato fare altro, non il cuoco ma studiare. Mi chiedevo, andar via da casa rendendomi indipendente o restare in famiglia e studiare? Sai quale fu la mia scelta. La strada che mi portava lontano da casa era sempre quella favorita. Fuori ero libero e respiravo a pieni polmoni. A casa ci stavo male, anche fisicamente. Mi aiutarono le letture e, molto dopo, cinque anni di psicoanalisi.
L'unico nostro collante erano i genitori. Andati via loro siamo quasi degli estranei. Voi la famiglia io l'estraneo. E di solito gli estranei non vengono coinvolti negli affari di famiglia.
Buona Pasqua a tutta la tua famiglia

lunedì 15 marzo 2010

Allora, non vuoi farti chiavare dal tuo stallone?




“Ti si legge in faccia quanto sei miserabile... Adottato e mantenuto di merda! Prova a fare la mia vita x 1 giorno, moriresti x questo ho voglia di sfondarti!”

Un abbraccio e quattro chiacchere davanti ad un pub. Forse ubriachi entrambi. Poi non ci siamo più visti. Non ricordavo nemmeno più il suo nome. Lo rividi mesi dopo. Ho difficoltà a capire quando qualcuno mi sta corteggiando. E anche allora ci misi del tempo a realizzare i suoi intenti. Veniva spesso in negozio. Si parlava del più e del meno. Un pò fuori di testa ma in fondo un bravo ragazzo. Le visite divennero sempre più frequenti fino a diventare un chiaro corteggiamento. E un giorno una richiesta esplicita:
“Vengo a casa con te?”
“No!”
“Non vuoi fare sesso con me?”
“Non mi attizzi”
“Perchè?”
Allora ho capito che non si comunicava. Cominciarono dapprima i disegni. A cera. Graffi e violenza. Lasciati da lui per me. Poi lettere con deliri e inviti. Con il numero del suo cellulare. Da usare se “avessi avuto le palle per un incontro con un uomo vero”.
Da più di un anno abita vicino al mio posto di lavoro. E sono stati mesi di appostamenti. Ancora lettere e foto. Foto sue. Lui più o meno nudo. Che offriva il suo “arnese”.
“E te lo dico non perchè mi aspetto qualcosa in cambio, ma perchè sapendolo, tu non faccia più la troia con sorrisini e ammiccamenti da lontano! Perchè la prossima volta che lo fai, ti bacio con una focosità di cui ignori l'esistenza”.
Non so come venne a conoscenza del numero del mio cellulare.
“Hai proprio un carattere di merda! Non vorrei avere a che fare con te nemmeno se mi pagassero 1000 euro al giorno! 'fanculo, me compreso”
fu il suo primo sms. E da allora ne ricevetti centinaia.
“Mi ha fatto litigare con te ieri, sono molto più sensibile di quello che credi. Solo che io non vivo nei tuoi salotti chic, ma in contesti dove devo fare il duro, il grezzo perchè altrimenti ti spezzano. Ti voglio bene”.
Al ritmo di tre quattro al giorno. All'inizio quasi divertito dai messaggi assurdi che ricevevo, dopo un poco divenne un fastidio.
“Io sono un cane bastardo sensa padrone! Tu invece mi intenerisci e mi addolcisci parecchio... un contrasto che è come una scheggia piantata nel mio cuore”.
Lui continuava malgrado più volte a voce gli avessi fatto notare il mio non interesse a leggere quelle sue frasi. L'ultima volta mi rispose mostrandomi il dito medio. Quindi decisi di cambiare scheda al cellulare. Finalmente. Ma...
Da allora lui cominciò a passare mattinate in negozio. Sfogliando giornali, telefonando con il suo cellulare. Io cerco di ignorare la sua presenza. Lui fa lo stesso con me. Ma lui è lì per me. Ed io mi sento controllato. E circondato da un delirio.
“Il pensiero che non ti avrò si stà già insinuando dentro di me, sopra le mie mani, sui miei occhi... crudelmente, dolcemente! E lo amo questo pensiero, perchè è la sola cosa che ho di te”.
Tutte le energie le spreco cercando di allontanare dei pensieri che tornano ossessivamente.
“Ti amo e mi fà male!”
Avete avuto un primo contatto, benvenuti nel delirio.

“Allora, non vuoi farti chiavare dal tuo stallone?”

lunedì 1 febbraio 2010

Il segreto



Racconta la leggenda che una serva, per fare un dispetto alla padrona, buttò nell'impasto per il pane l'acqua dove erano stati a mollo dei ceci. Certa così di rovinare l'impasto. Invece il pane quella volta venne più morbido e soffice. Io credo che nelle leggende c'è sempre un fondo di verità. E visto che mi veniva raccontata come cosa anche sperimentata ho voluto provare. La ricetta proponeva: messa in ammollo di ceci per ventiquattro ore. Scolati i ceci utilizzare quanto bastava dell'acqua per fare un impasto con mezzo chilo di farina. Lasciare riposare per 12/24 ore. Unire a due chili e mezzo di farina. Impastare e far lievitare per otto ore. Poi in forno per quaranta minuti.
Sicuro? Chiedo a Sergio, che mi ha raccontato questa storia. Afferma di sì, anzi sottolinea che addirittura i ceci dopo l'ammollo li buttava. Perchè non poteva mangiare continuamente ceci.
Allora provo. Dopo aver tenuto i ceci per un giorno in acqua faccio il primo impasto. E lo metto a riposare ben coperto. I ceci li metto invece a cucinare. Foglia di alloro, carote e sedano, cipolla e uno spicchio d'aglio. Raramente cuocio i ceci, non perchè non mi piacciono, ma per la cottura lunghissima. E spesso nemmeno mi vengono ben cotti. Li metto a cuocere in una pentola di coccio a fuoco lento. Oltre due ore di cottura.
Il giorno dopo di mattina, riprendo l'impasto, unisco il resto della farina. E lascio riposare. La sera dopo aver scaldato il forno a 180 gradi lo inforno. In verità non mi sembrava avesse fatto un minimo movimento. Dopo una ventina di minuti giro le forme. Alla fine sembra cotto ma ha la consistenza troppo dura. Non ha lievitato minimamente. Quasi un pezzo di marmo.
I ceci erano buonissimi. Mai avevo ottenuto un risultato simile. Gustandoli pensavo a quel cavolo di leggenda con una morale quasi zen. E' inutile fare del male, perché comunque il tuo gesto sortirà qualcosa di buono. I ceci erano squisiti. Il “pane” da buttare.

sabato 23 gennaio 2010

mercoledì 20 gennaio 2010

Una giornata da non dimenticare



Che è successo? Mi hanno svegliato intorno alle 4,30. Al citofono si presentano “Polizia”. Mi vesto e scendo. Hanno aperto il negozio. Due persone. Rompendo la saracinesca e il vetro della porta. Per terra trovo il contenuto di quattro cassetti. Loro sono stati arrestati. Mancano i soldi, l’incasso di diversi giorni. Mi portano in questura per la denuncia. Ho freddo e desidererei un caffè. “Fa parte di Addiopizzo?”. Cerco di spiegare che no, non più. Anche se sono stato fra i primi commercianti ad aderire. Un agente condivide le mie perplessità. Mi restituiscono i soldi rubati. “ Uno dei due li aveva nascosti nelle mutande“.
Mi riaccompagnano in negozio. Ma tutte le macchine della Polizia sono così anguste e scomode?
Raccolgo il contenuto dei cassetti. Trattengo dei lacrimoni. Trovo una vecchia memory card persa. Poi penso Makkox!
Il disegno che mi ha regalato c’è, poi penso all’ultima copia del suo volume esposto dietro la cassa. Mi giro e controllo. Poi mi dico “Minchia, sei un vero coglione!”.
Danni: la saracinesca da riparare ed il vetro da sostituire. Chiamato lo “specialista” mi fa un preventivo di 300.00 euro. Vabbè 250. Danni collaterali: i lamenti di Davide che indicato alla Polizia come tramite per arrivare a casa mia, viene svegliato prima di me. Lui non fece come quel Pietro che nego tre volte. Gli è bastato una volta sola.
I commercianti della zona prima mi chiedono: “Ma cosa c'é da rubare da te?”. Poi mi consolano: “Gente senza dignità, non si fa con persone dello stesso quartiere” (???). Infine insultano “Non hanno le palle, perché se avessero le palle avrebbero scassato un bancomat”.
Intanto lo “specialista” della saracinesca mi sembra un poco imbranato. Mi da appuntamento alle 13:00 per fare il suo lavoro. Sale e scende dalla scala, controlla, scuote la testa. “Ma è sempre stata così dura?”. Risale, riprova, scuote ancora la testa. Tutto questo fino alle 16,30. Quando decide, guardandomi quasi dispiaciuto, che bisogna smontare l'asse e che le molle hanno ceduto e che... Io mentre parla vedo gonfiarsi quei 250 euro e scuoto la testa anche io. Appuntamento al giorno dopo.
Medito su questa giornata: 19/01/10 anniversario della morte di Bettino Craxi. E questo sarebbe nulla, ma c'é chi vorrebbe riabilitare la figura quanto meno ambigua di questo politico. Tentato furto ad Altroquando. Ancora: in mattinata arriva la notizia che la polizia sta sgombrando il Laboratorio Zeta. Quando si dice una giornata di merda.
Angelo e Salvatore sono i nomi dei due signori che intorno alle quattro di notte hanno sentito l'impellente bisogno di farsi un giro all'interno di Altroquando. Sul giornale viene fatta la sintesi dell'accaduto con le loro foto. Il giornale manco mi degna di un minimo di pubblicità e non mi nomina nemmeno. O meglio titola - Polizia. “Furto in un'edicola”, in cella due pregiudicati-
Un cliente leggendo l'articolo e conoscendo i protagonisti mi dice “Io un euro e mezzo in benzina lo investirei. Per poi buttargliela addosso”. “Ma sono poveri cristi” e quello insiste “Non avere pietà, non se la meritano”.
Ad alcuni amici e conoscenti non basta solidarizzare per email o via facebook. Mi vogliono sentire, vogliono farsi sentire, perché di presenza e tutta un'altra cosa.
Io avrei voluto dimenticare questa giornata diventata celebrativa di un ladro e latitante. Poi ripensando alle coincidenze
proporrei il 19 Gennaio come giornata contro i furti di tutti i tipi. Nei piccoli negozi da dei ladri di polli, in una nazione da uno “statista”, in un centro sociale dalla polizia.

martedì 19 gennaio 2010

lunedì 18 gennaio 2010

giovedì 7 gennaio 2010

Di cibo




Dov'è il sapore e l'odore dell'arte?
Di certo nel vedere e assaggiare l'ultima insalata preparata da Gauguin per Van Gogh. Ci sfugge quello che domani per altri sarà storia. Gauguin sosteneva che sapeva quando aveva finito un quadro così come sapeva quando l'insalata era pronta. Non apprezziamo l'arte e il cibo che oggi ci circondano e fuggiamo altrove. Lui fuggì nelle Isole Marchesi. Altri in quello che oggi definiscono i classici. Opere, artisti, cibo. O sultani. La chiamiano ricerca, rivisitizzazione o remake. Ma il latte caldo, appena munto, con la sua naturale schiuma, che bevevo da piccolo. Senza farlo bollire. Direttamente dal recipiente dove era stato munto. Nessun remake, nemmeno biodinamico, avrà più il potere di ritornarmelo. Amen. Ma si continua a mangiare.
Dei tre fratelli sono stato l'unico ad essere allevato con il latte in polvere. Farina di latte residuo dello sbarco americano in Sicilia. E arrivato fino a me. Disturbando il rapporto con il caldo seno di mia madre. Forse per questo successivamente ero affascinato dalle novità dell'industria alimentare. Freddo seno di metallo. Mi incuriosiva quella carne conservata in scatola. Un futurista dell'alimentazione. Industrie dove uomo e macchina diventavano uno. Confezioni da aprire e subito mangiare. Anche senza bisogno di scaldare. Cibo industriale. Disidratato, liofilizzato, condensato, precotto, confezionato in ambienti protetti. La trippa no, mi faceva troppo schifo. Tutta una scoperta, una comodità tutta moderna, una montagna di merda. Merda comoda e veloce. Che lascia un senso di mancanza, di assenza di anima. Sempre.
Sono passato successivamente alla scoperta del naturale, del macrobiotico. Una specie di rinascimento del cibo, una rivalutazione dei classici dando loro un senso e un proprio spirito vitale. Non ancora però a chilometro zero. Macrobiotica, riso integrale, pane fatto in casa con il lievito naturale. E lo yogurt fatto con quella specie di blob che cresceva continuamente. Che regalavi agli amici con un sottofondo di gusto sadico nella diffusione di quell'alieno. La riscoperta della campagna e musica orientale. La stitichezza.
Il cibo è come noi ci poniamo di fronte ad esso. Se siamo spinti da fame, gioco, dovere o lavoro. Aver la possibilità di guardare al cibo in modo diverso dalla necessità non è da tutti. Come non è da tutti giocare nella sua preparazione. Più un piatto è semplice più svela la vera capacità di chi cucina. Anche nel nome. Odio l'abbellimento artificioso di chi chiama chiama “vellutata di crema di patate” un semplice passato di patate.
Mia nonna chiamava insalata qualsiasi tipo di insalata. Comunque. Dalla quella semplice, lattuga olio limone e sale, a quella quasi barocca, con aringa affumicata, fettine sottilissime di limone, scalogno, finocchio e arance.
Adesso ho un approccio molto naif. Cerco lo sguardo da ingenuo, coltivo peperoncini e rosmarino. Adoro i colori forti e contrastanti. Il rosso dei pomodori, il giallo dei limoni, il verde del prezzemolo. Le insalate della nonna. Con le loro infinite varianti.
Chissa quali insalate si inventò Gauguin nelle Isole Marchesi?

lunedì 4 gennaio 2010

Ascoltami




Ma, mi ascolti?